Perché Boccaccio adopera una “cornice”?
In questo brano del 1922, Umberto Bosco (1900-1987) illustra le ragioni narrative della cornice del Decameron e il suo rapporto con le singole novelle.
Che scopo perseguono le pagine solenni, grandiose, ad ampie pennellate fosche della descrizione della peste, se non a rendere artisticamente accettabili gli scherzi e la giocondità e la dubbia morale della brigata? Fate che in tempi serenamente normali, quando tutto fosse andato per la sua china, in una Fiorenza preoccupata solo dei suoi commerci e delle sue competizioni politiche, quelle sette donne e quei tre uomini si fossero adunati a godere la dolce campagna toscana in blandi divertimenti e a raccontarsi a vicenda novelle per la maggior parte grassocce e leggere: certo quel che avrebbero fatto e detto avrebbe rivelato in essi una costituzionale superficialità, un’irrimediabile leggerezza. Ma tenete presenti quelle pagine iniziali; ripensate all’incubo della morte e del dolore a cui quei novellatori si son finalmente sottratti: allora ogni scherzo più audace vi si paleserà come l’umana reazione di spiriti compressi troppo a lungo sotto una minaccia oscura e inesorabile; la loro frivolezza scomparirà o si attenuerà. «E se alle nostre case torniamo, – dice Pampinea – non so se a voi così come a me addiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco, e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che son trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde in loro nuovamente venuta spaventarmi». È l’incubo, come dicevamo dianzi. Il quale sorgeva appunto dall’essere costretti, dalla solitudine e dagli spettacoli di morte, a uno spietato concentrarsi in sé stessi. Ma ora i dieci giovani hanno imposta una tregua al tarlo del pensiero: «… io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare – dice subito Dioneo ai compagni consenzienti – : li miei lasciai io dentro dalla porta della città…».
Ecco che la peste ci appare come la premessa artistica, oltre che logica, non solo della costituzione della brigata e del suo novellare, ma di tutta l’opera. Di tutta l’opera, s’intende, considerata nel suo insieme, nel suo organismo complessivo: così come il Boccaccio voleva che fosse considerata. Giacché noi abbiamo nel Decameron un’opera unitaria e contemporaneamente, per così dire, cento piccole opere d’arte da studiare e gustare nel loro isolamento, nella loro individualità singola; queste ultime non consentono altro legame tra loro se non quello costituito dalla complessa e una personalità del Boccaccio. Avviene così che l’impressione delle pagine iniziali s’attenua e dilegua procedendo nella lettura, né bastano a ravvivarla gli accenni all’eccezionalità delle congiunture, messi in bocca a questo o a quello dei novellatori. Questi accenni tutt’al più servono a giustificare teoricamente, in linea puramente polemica, l’audacia di taluni racconti, ma non hanno il potere di suscitare in noi l’orrore di prima e avvicinarci per tal via all’anima di quei novellatori ansiosi di serenità. Ma quando, a lettura finita, noi ci facciamo a considerar l’opera nel suo insieme, ecco che quelle pagine, e tutta la finzione dei novellatori che ne deriva, riprendono il loro valore, e ci accorgiamo che non possiamo prescindere da esse, se vogliamo penetrare addentro nello spirito del Boccaccio.
Ma a togliere al Decameron l’accusa di frivolezza, a conferirgli dignità d’arte superiore, la finzione dei novellatori concorre anche per altra via. Il frammento non ha nel sec. XIV diritto di cittadinanza nel regno delle arti: non usavano, come ora usano, quelli che sono stati argutamente definiti i «capilavori d’una sola sillaba»1. Dante dava alla sua Commedia la mirabile architettura plastica e formale che è croce e delizia dei suoi commentatori; il Petrarca considerava nugellae non già solo i suoi versi volgari, ma tutti quei suoi scritti che non avessero un organismo complesso e conchiuso, e in ogni modo si guardò bene dal pubblicar sparsamente i suoi versi, ma dette loro legami, starei per dire trama fondamentale, insomma un alfa e un omega, e un omega, si noti, in tono maggiore. Così Boccaccio tiene alla sua finzione, come a quella che a suo parere dà alle sue «novellette» una più salda consistenza artistica.
(U. Bosco, Il «Decameron». Saggio, Bibliotheca Editrice, Rieti 1929)