Il Grasso legnaiuolo, uno scherzo inquietante
Scherzando, si possono dire cose molto serie; giocando, si possono rivelare tragiche verità. Giorgio Manganelli (1922-1990) è stato uno dei più originali scrittori italiani del Novecento, e nei suoi libri ha mescolato spesso con grande intelligenza gli ingredienti dell’ironia e del tragico, dell’amarezza e del riso, e ha riflettuto su queste contaminazioni nei saggi raccolti in La letteratura come menzogna (1967). Non è strano che la novella dolceamara del Grasso legnaiuolo gli fosse particolarmente cara. Eccone un suo commento.
Il Grasso ha or ora bussato alla propria porta, e una voce gli ha risposto, una strana voce, «contraffatta»; che gli sembra la sua propria. «Sarei io mai smemorato?». In quel momento gli passa accanto Donatello «intagliatore»: un frettoloso, squisitamente casuale incontro serale: «e giunto a lui, così al barlume, disse: “Buona sera, Matteo, cerchi tu el Grasso? Poco è che se ne andò in casa”. E non si fermò, ma tirò1 pe’ fatti sua». Così, in questa maniera sommessa e distratta, prende inizio la grande storia della giarda, o natta2, o trappola, ideata da Filippo Brunelleschi come capolavoro di un genere mai tentato: «noi gli faremo credere che fusse diventato un altro, e che non fussi più el Grasso legnaiuolo» [...].
Il saluto distratto di Donatello, quel sommesso «Buona sera, Matteo», ha il rintocco di un perfetto e rovinoso incantesimo; e da quell’istante, dal momento in cui il Grasso ha «ascoltato» il nome dell’altro, egli è perduto; e la storia sarà un lento, smemorato affondare in una «fantasia d’ambiguità».
È veramente una giarda, una burla, questa che viene raccontata in uno dei grandi racconti della nostra letteratura? Vi è qualcosa di enorme in questa invenzione, qualcosa di misterioso nel suo agire, una potenza insieme enigmatica e leggera, un vento occulto in queste pagine che, più che a Calandrino3, sembrano rimandare a Harun al-Rashid e Abu Hassan, il califfo per un giorno delle Mille e una notte. Leggendo e rileggendo questo testo si ha l’impressione che il gioco, apparentemente tradizionale, della burla nasconda interrogativi, solleciti ombre, evochi figure di tenebra, indugi tra realtà e sogni, tra ragione e follia, tra la letizia del vivere e gli abissi della melanconia.
Il Grasso è un bravo artista del legno, accurato autore di «colmi» e «tavole d’altari». È un uomo piacevole «come sono la maggior parte de’ grassi», incline a una «semplicità» difficile, che per esser compresa richiede «sottili uomini». Dove sta la sua fragilità, perché sarà possibile trasformarlo in Matteo? Forse non ha alcuna fragilità: solo, è caduto nelle magherie4, negli incantesimi razionali di un «uomo di maraviglioso ingegno ed intelletto» [...].
La fantasia di una alternativa, l’invenzione di un mondo diverso, parallelo, è al centro delle burle degli antichi novellieri; anche Calandrino è coinvolto in questo transito a un altrove fittizio; ma in questa novella, l’altrove tocca l’io, l’emigrazione del Grasso è da un sé ad altro, ignoto sé. Il Grasso esita, rilutta, resiste; ma la congiura lo incalza; a un certo punto egli sospetta che gli «convenga» essere Matteo, ed è sublime, orrendamente sublime questa trattativa che egli conduce con se stesso e con i fantasmi che lo insidiano […].
Come nella favola delle Mille a una notte, a un certo estremo incrocio interviene un beveraggio, che comporta un lungo sonno. E qui nasce una ulteriore ambiguità. Il Grasso addormentato viene ricondotto nella sua casa; ma viene posto nel suo letto in un modo che non gli è consueto, e la sua bottega vien messa calcolatamente sottosopra, non disordinata; ridistribuiti i suoi arnesi in modo «trambustato»; ma la chiave viene posta là dove egli, il Grasso, era solito appiccarla5. Svegliatosi il Grasso riconosce se stesso; dunque «è ritornato»; parola che racchiude un brivido, come se quel fantasma che è l’io fosse rientrato nel corpo che aveva disertato, o anzi ceduto ad altri. Ma il Grasso ricorda anche tutto ciò che gli è accaduto quando lo si chiamava Matteo. […] L’universo del Grasso è stato leso alle fondamenta, e insieme il nostro universo; e poco monta6 che a un certo punto egli capisca d’esser stato «vignato», beffato; ma è una beffa che «non intende»; giacché ciò che egli ha sperimentato, la «fantasia d’ambiguità», la precarietà dell’io, il transito del sonno e del sogno, tutto ciò è ancora beffa, giarda, natta?
(G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1967)